Supponiamo di trovarci ad una festa di
compleanno e di essere stati proprio noi a fare gli inviti, ordinando nel
contempo la torta al pasticciere.
Ci aspettiamo 10 persone quando, a cose
ormai fatte, scopriamo che gli invitati sono in effetti ben 15, cinque in
più della nostra moderata stima iniziale. Come gestiamo questo problema
cercando di accontentare tutti ed evitando brutte figure?
Con un minimo di buon senso e senza
gettarci nello sconforto eseguiamo un'operazione assai semplice: invece ti
tagliare la torta in 10 parti, la dividiamo in 15 fette un po' più piccole.
In tal modo tutti avranno il piacere di deliziarsi con le bontà del
pasticciere e nessuno farà ritorno a casa recriminando una mancata
attenzione nei suoi confronti.
Immaginiamo adesso che la torta sia una
rappresentazione simbolica dell'offerta di lavoro complessivo di una nazione
e che gli invitati siano tutti quelli che lo chiedono in cambio di un
reddito. Come le statistiche sul tasso di disoccupazione purtroppo
dimostrano da anni, ci troviamo di fronte ad una "torta" fin troppo piccola
rispetto alla quantità di persone che vorrebbero avere accesso ad essa,
affrancandosi così dalla triste situazione di non riuscire a guadagnare uno
stipendio e poter progettare un futuro stabile e sereno.
Eppure quel semplice gesto descritto
sopra, carico di buon senso e per certi versi risolutivo, è del tutto
precluso a chi dovrebbe regolare il funzionamento del mercato del lavoro,
rigido nel suo inspiegabile cammino su binari ormai discutibili e rivelatisi
fallimentari, a meno di non ritenere accettabile che in alcune aree del
paese solo un giovane su 2 riesca a trovare un lavoro, lasciando un suo
coetaneo ai margini e schiavo della precarietà.
Uscendo dalla metafora fin troppo abusata,
una discussione seria e non ideologica sulla riduzione dell'orario
lavorativo sarebbe urgente e necessaria.
Naturalmente l'obiettivo dovrebbe essere
perseguito senza trascurare l'altro, altrettanto importante, di far si che
l'offerta di lavoro complessiva aumenti (la torta diventi più grande).
Tuttavia non ipotizzare di ridurre l'orario in modo da distribuire il carico
su più persone semplicemente equivale a disinteressarsi del disagio sociale
ed economico vissuto da fasce sempre più ampie di popolazione, pur istruite
e abili a lavorare (la disoccupazione è notevole anche per i possessori del
titolo di studio più alto, la laurea).
L'obiezione mossa su questo punto da
numerosi economisti è di norma la seguente: i costi delle aziende
salirebbero, la loro competitività internazionale calerebbe e gli effetti
benefici in breve tempo sarebbero annullati.
Possibile; tuttavia delle contro-obiezioni
sono più che legittime. Le domande seguenti cercano quindi di
esemplificarle: perché, in Francia, la riduzione da 40 a 35 ore lavorative
settimanali è stata possibile e da diversi anni regola il mercato del lavoro
di uno dei paesi più avanzati d'Europa, senza generare i danni che da noi
vengono prospettati? Perché nel nostro paese esistono già lavoratori che
fanno 36 ore settimanali (quelli pubblici) ed altri che ne fanno 40 (quelli
privati), a sostanziale parità di salario? Gli eminenti economisti che
bocciano qualsiasi apertura tesa a distribuire meglio il carico del lavoro
non erano gli stessi che prevedevano crescita economica inesauribile e
benessere diffuso, salvo poi restare senza convincente spiegazione al
verificarsi della crisi economica più grave degli ultimi secoli?
Infine una riflessione che troppo
superficialmente si tende a non proporre: con l'aumento del tempo libero
(almeno 5 ore settimanali inizialmente) probabilmente diversi settori
dell'economia potrebbero trarre giovamento; le persone, infatti,
disporrebbero di queste ore per "fare delle cose", ad esempio nuovi acquisti
che viceversa non avrebbero fatto, richiesta di nuovi servizi verso cui non
si sarebbero orientati, maggiori spostamenti che per mancanza di tempo non
avrebbero mai pianificato.
Insomma, forse alcune aziende sarebbero
costrette a migliorare la propria efficienza per mantenere gli stessi ritmi
di crescita (il che è paradossalmente benefico) ma altre avrebbero nuovi
clienti inaspettati, migliorando i propri profitti.
Complessivamente si potrebbe raggiungere
un triplice risultato: diminuire il tasso di disoccupazione (soprattutto
giovanile) , aumentare i profitti di settori dell'economia ad oggi
trascurati e, perché no, rendere le persone un tantino più libere di gestire
meglio il rapporto tra vita lavorativa e vita privata .
E' necessario però, per far ciò, che si
introducano preventivamente concetti nuovi nella cultura di massa, dominata
dal pensiero unico "neo-liberista": esempi "positivi" di persone che si
dedicano solo ed esclusivamente al lavoro (trascurando il proprio io)
andrebbero leggermente ridimensionati a favore di quelli che oltre a
lavorare (in modo proficuo ovviamente) hanno anche degli interessi, come
leggere, scrivere, fare sport, viaggiare o andare a teatro.
Tutte cose che gli italiani, non a caso,
fanno sempre meno, senza per questo provare un pizzico di sano imbarazzo.
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